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Mercoledi 9 Luglio 2003 REPUBBLICA on-line GIOVANNI VALENTINI
Nel regno del conflitto d'interessi Mediaset affonda Rai e giornali
L'impero di Arcore prospera grazie al potere del governo
PROVATE a immaginare per un momento che nel Paese della Fantasia si scopra una miniera d'oro o un giacimento petrolifero su un terreno demaniale: e che lo Stato ne assegni in concessione un terzo a un'impresa che appartiene al capo del governo. Immaginate anche che nel frattempo l'azienda pubblica concorrente, titolare di una concessione per un altro terzo, sia messa in liquidazione sotto il controllo governativo. Cosicché l'azienda privata del premier arriva a sfruttare la miniera d'oro o il pozzo petrolifero fino al 40%, mentre quella pubblica scende al di sotto del 20 e le imprese più piccole del settore non raggiungono neppure il 2%.
 
In un mercato nazionale dell'oro o del petrolio dominato al 60% da un tale oligopolio, la miriade degli altri operatori che non hanno né concessioni né finanziamenti pubblici devono subire lo strapotere del trust e spartirsi quello che resta della torta. Forte di una capacità commerciale che deriva dalla concentrazione dei mezzi di produzione, il duopolio governativo impone così la sua politica dei prezzi, a colpi di ribassi che configurano una pratica di dumping e mettono fuori gioco tutti i competitors. A quel punto, la concorrenza non è più libera, il mercato si chiude e chi vuole comprare gioielli o benzina è costretto a rivolgersi ai soggetti dominanti che alla fine s'identificano in uno solo. Fuor di metafora, non siamo nel Paese della Fantasia: non parliamo di oro o petrolio, ma di informazione, cultura e spettacolo. Questa è oggi l'Italia della televisione e della pubblicità. Il regno del conflitto di interessi, dove il capo del governo è il massimo beneficiario di una concessione pubblica, rilasciata su un bene collettivo come l'etere con un numero limitato di frequenze. E' l'impero delle antenne, la dittatura degli spot, il regime televisivo.
 
Nel 2002, anno II dell'era berlusconiana, la tv nel suo complesso è arrivata a rastrellare 3 miliardi e 951 milioni di euro, pari al 53,3% del totale: vale a dire la fetta più grossa dell'intera torta pubblicitaria. Ma mentre la Rai - finanziata già in parte dal canone d'abbonamento e quindi vincolata da indici di affollamento più bassi s'è dovuta accontentare di 1 miliardo 242 milioni, e le altre televisioni di appena 119 milioni, Mediaset ha continuato invece a fare la parte del leone accaparrandosi 2 miliardi 589 milioni. Cioè la maggior parte della fetta più grossa. E se nei primi quattro mesi di quest'anno, in piena crisi dell'economia e quindi della pubblicità, l'azienda di Stato ha accusato un'ulteriore erosione del 5,8%, quella privata che appartiene al premier è riuscita a mantenere sostanzialmente inalterata la propria quota, perdendo poco meno dell'1% rispetto al trend di mercato (-2,2%).
 
Il peggio è che questo andamento di Mediaset, oltre che a spese di un concorrente diretto come la Rai, si ritorce anche a danno dei concorrenti indiretti e in particolare dei giornali: nel 2002, quotidiani e periodici avevano già perso il 7,3% sull'anno precedente e nel primo quadrimestre del 2003 registrano ancora un calo del 4% (rispettivamente, del 5 e del 2,3), come ha segnalato più volte la Federazione editori, con il suo presidente Luca di Montezemolo. E' in atto, insomma, una pericolosa emorragia di risorse pubblicitarie dalla carta stampata alla televisione e dalla televisione pubblica a quella privata: più che un travaso, in realtà è una doppia trasfusione a tutto vantaggio dell'azienda-partito che fa capo al presidente del Consiglio.
 
L'intero sistema dell'informazione rischia perciò di rimanere dissanguato da un vampirismo commerciale che, per quante capacità si possano riconoscere al management di Publitalia, beneficia comunque del traino per dir così - di Forza Italia. Ed è favorito, inevitabilmente, anche dall'autorità del governo in carica, dal potere contrattuale che il premier e i suoi ministri detengono nei confronti delle aziende sottoposte al loro controllo, ai loro provvedimenti e alle loro autorizzazioni. Il regime televisivo si autoalimenta così in un circolo vizioso che può risultare letale per il pluralismo e per la libera concorrenza, ma soprattutto per la democrazia e non solo per quella economica: prima la pubblicità ha finanziato la tv, poi la tv ha conquistato la politica e ora la politica rifinanzia la tv attraverso la raccolta pubblicitaria.
 
Per constatare quanto sia abnorme questa situazione, basta andare in edicola e prendere tutti i giornali che si possono trovare: quotidiani, settimanali e mensili; di destra o di sinistra; economici o sportivi; maschili o femminili. Mettete pure nello stesso pacco "la Repubblica" e il "Corriere della Sera"; "Il Sole-24 Ore", la "Gazzetta" e il "Corriere dello Sport"; "L'espresso" e "Panorama"; "Grazia" e "Amica"; "Quattroruote" e "Quattrozampe"; "Il Mondo" e magari il "Mondo del Golf". E qualsiasi altra testata in circolazione.
 
Bene: i giornali italiani, di ogni tipo e tendenza, detengono tutti insieme una quota di pubblicità di poco superiore alle tre reti Mediaset: in pratica, la corazzata Canale 5 e i suoi accessori, Italia Uno e Retequattro. E già questa è la spia di un'evidente sproporzione. Ma ora il rapporto tende addirittura a invertirsi, ribaltandosi a favore dell'impero berlusconiano. Fino al '95, a valori espressi in euro, il totale della carta stampata era di 1 miliardo 634 milioni contro 1 miliardo 589 milioni di Mediaset. L'anno scorso i volumi sono stati quasi equivalenti: 2 miliardi 917 milioni per i giornali (quotidiani e periodici) e 2 miliardi 589 milioni per le tv del Biscione. Nel primo quadrimestre del 2003, invece, l'azienda-partito ha raccolto 990 milioni contro gli 893 di tutta la stampa e adesso l'avanzata minaccia di diventare trionfale con l'appoggio del partito-azienda in Parlamento: la cosiddetta "legge di sistema" presentata dal ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, ora in seconda lettura al Senato, più che a riformare la televisione punta infatti a sistemare definitivamente gli affari del presidente del Consiglio, permettendo alla Fininvest di aumentare il suo fatturato fino a 10 mila miliardi di lire all'anno e magari anche oltre.
 
Nel frattempo, come risulta dalle elaborazioni della Margherita sui dati Nielsen, nel periodo ottobre 2002-marzo 2003 i "big spender", cioè gli inserzionisti maggiori, hanno spostato di colpo gli investimenti pubblicitari riducendo drasticamente le spese sulla carta stampata e incrementandole in proporzione sulle reti Mediaset. Il trasferimento più vistoso è quello della Martini & Rossi che ha tagliato il 65,80 sui quotidiani per aumentare del 65,39 sulla televisione commerciale. Ma anche il budget della Procter & Gamble è calato del 90% sui giornali ed è salito del 37% sulle tv del Biscione. Altrettanto hanno fatto alcune aziende telefoniche sottoposte al controllo amministrativo del governo, come Omnitel (-25,52% e +23,05%); Wind (-55,31 e + 10,05) e infine Tele2 (-78,49 e +26,67).
 
E un'analoga tendenza seguono le campagne istituzionali di banche e altri enti pubblici o ex pubblici. Replicano i manager dell'industria televisiva: è la legge del mercato; le imprese investono dove vogliono e dove trovano maggiore convenienza; gli inserzionisti hanno tutto il diritto di scegliere i mezzi più adatti alla diffusione dei loro messaggi e dei loro prodotti. Già, ma proprio qui sta problema. A parte l'influenza dei "centri media" che agiscono come broker o come mediatori fra chi compra e chi vende pubblicità, intascando dalle aziende televisive lucrose over commission, resta il fatto che in Italia il costo unitario della pubblicità in tv è tra i più bassi d'Europa: 40 centesimi per minuto di ascolto, secondo le ricerche Isimm (Istituto per lo Studio dell'innovazione nei media e per la multimedialità), contro 0,47 della Francia, 0,87 della Germania e 1,03 del Regno Unito.
 
Ma questo, più che il risultato di una politica di vendita, è un effetto della concentrazione televisiva e del duopolio pubblico-privato. Da qui, discende anche la bassa qualità dei programmi, la progressiva omologazione tra Rai e Mediaset, la "tv deficiente", volgare e violenta che imperversa sui nostri schermi. Con tre reti a disposizione, tre contenitori, tre scatole da riempire ogni giorno, ventiquattr'ore su ventiquattro, per fare audience la televisione commerciale è costretta da una parte a infarcire i palinsesti di film e telefilm di qualsiasi genere; dall'altra, a svendere gli spot e a moltiplicare le telepromozioni, per conquistare clienti grandi e piccoli, talvolta anche piccolissimi, che non sempre hanno un interesse effettivo a raggiungere con i loro prodotti un pubblico di tali dimensioni.
 
A differenza di quanto avviene per le pagine dei giornali che comportano comunque spese di carta, stampa e distribuzione, per la televisione un minuto o un'ora di pubblicità in regalo o sottocosto sono un minuto o un'ora di produzione risparmiata. E così, insieme alla carta stampata, nell'era berlusconiana anche il pluralismo e la libera concorrenza rischiano di andare fuori mercato.

 

 
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