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Lunedì 21 Luglio 2003 CENTOMOVIMENTI-News di Federico ORLANDO
Perché Montanelli amava e odiava l'Italia
Indro Montanelli morì il 22 luglio 2001. Nei mesi precedenti aveva partecipato, fra molte amarezze e non poche contestazioni, alla campagna elettorale, con interviste alla Rai e articoli sul Corriere della sera, esortando a votare per l’Ulivo: "Questa destra mi fa paura". La vittoria di Berlusconi lo deluse, ma invitò il centrosinistra a lasciarlo governare fino in fondo: "Solo così gli italiani si immunizzeranno". Ma non ne era sicurissimo. Aveva perso fiducia nel paese, anzi, a causa delle vicende pubbliche più che per l’età avanzata, si sentiva ormai fuori della storia nazionale: "Questo paese non mi piace ed io non piaccio a lui".
 
Sono le stesse terribili parole di Giovanni Amendola, Piero Gobetti, Giuseppe Prezzolini, uomini fra loro diversissimi ma tutti rivissuti da Montanelli come suoi affini, con un tratto distintivo comune: l’aver compiuto una scelta di estrema minoranza, una minoranza "liberale", aggiungeva Montanelli, in un paese che liberale non è mai stato, ma solo conservatore, corporativo, guelfo o ghibellino. Se in Europa borghesia e liberalismo sono stati storicamente sinonimi, in Italia sinonimi sono conservatorismo e borghesia.
 
Il tentativo liberale della borghesia fatto nel Risorgimento finì, compiuta l’unità d’Italia, con la caduta della Destra Storica nel 1876. Bastò quella sconfitta - ha sostenuto Galli della Loggia, e Montanelli concordava - a spingere la borghesia ad abbandonare la politica e a rifugiarsi nel guscio dell’economia, ad appagarsi di diventare "notabilato dell’imprenditoria", ostile allo Stato, e perfino allo Stato che essa stessa aveva creato nel Risorgimento; e che a sua volta, più la borghesia fondatrice se ne allontanava, più si anchilosava, e anzichè crescere coi cittadini si chiudeva a riccio contro i cittadini.
 
E’ solo richiamandosi a questa cultura di Montanelli che si possono capire i due conflitti che tormentarono il rapporto tra il grande giornalista e i lettori sul piano politico (del piano professionale non parlo: anche gli avversari ne riconoscevano la genialità e la dedizione alla professione).
 
Il primo conflitto fu coi lettori conservatori, quando Montanelli, per contrastare quello che gli appariva il "pericolo comunista", fondò "il Giornale nuovo" e con esso combattè una battaglia che da molti dei suoi stessi lettori fu giudicata non "la più vicina" ai loro gusti reazionari forcaioli (la definizione era montanelliana), ma come "la meno lontana". In pratica, compravano il Giornale solo perchè altri "più a destra" non ce n’erano. Il fatto è che Montanelli sapeva benissimo di che pasta fossero quei lettori, e con potenti dosi di cultura liberale (Romeo, Abbagnano, Ricossa, Bettiza, Pampaloni, Cancogni, Barzini, Ghisalberti, Arnaldi, Praz, Frosini, tutti antifascisti e non solo anticomunisti), riuscì nel miracolo di tenere il Giornale un passo e anche due avanti ai suoi lettori.
 
Quando la discesa in campo di Berlusconi, sdoganando i fascisti per riunire in un solo fascio di combattimento tutte le disponibilità anticomuniste del paese, spinse Montanelli a separarsi dal suo editore e a contrastarne l’azione politica, molti suoi ex lettori si trovarono in sintonia con l’editore anziché con l’ex direttore. Ma molti italiani che avevano avversato il moderatismo di Montanelli, trovandolo non adeguatamente "avanzato", salutarono invece con gioia la sua liberazione dal compromesso coi lettori di destra, e lo accolsero nel centrosinistra: dove lo collocava non la sua storia di giornalistica, ma la sua cultura di fondo.
 
Una cultura tormentata dal pessimismo, dalla sfiducia di poterla mai vedere affermata in Italia. E che trovò invece una breve e parziale consolazione nella vittoria dell’Ulivo del 1996, che gli fece intravedere una speranza liberale, così come, quasi un secolo prima, Giolitti l’aveva fatta intravedere alla generazione dei suoi padri.

 

 
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