E adesso, che cosa ci diranno
coloro che, all'inizio di questa estate come delle precedenti, ci hanno invitato
a non pretendere di fare troppo caso al caldo, scrivendone sui giornali come se
fosse una novità rilevante, quando tutti sanno che d'estate è normale sudare e
anche, un poco, lamentarsi? D'accordo, è solo l'estate più torrida degli
ultimi duecento anni, e da allora il mondo a quanto pare si è ripreso senza
sciogliersi ed evaporare. Solo che questa volta ci sono i livelli dell'ozono
alle stelle, gli incendi che devastano l'Europa meridionale, l'esaurimento delle
risorse, idriche e non, del pianeta…
In più, come regalo aggiuntivo
dell'estate, l'irrigidimento delle misure di sicurezza internazionali che
rallentano partenze e arrivi negli aeroporti, limitano le possibili mete del
turismo, fanno incombere su di noi, molto più che nella calda estate di
duecento anni fa (o giù di lì), una atmosfera di fine del mondo.
Ed è per mantenere, e anzi
regalare anche ai popoli «sottosviluppati» del mondo, questo stile di vita e
di consumo, che noi (loro?) occidentali ci siamo imbarcati nella guerra
irachena, e forse ci imbarcheremo in altre, sempre per salvare le risorse
energetiche che ci permettano di andare avanti con i nostri condizionatori,
auto, aerei, fino a che con qualche marchingegno potremo trasferirci su un altro
pianeta dove ricominciare il lavoro di civilizzazione-distruzione?
Sarà un riflesso di
antiamericanismo viscerale quello che ci spinge a dare la colpa a Bush (non
piove, governo ladro)? Lui che non ha voluto firmare il protocollo di Kyoto, che
continua a puntare tutto (compresa la vita dei suoi marines) sul petrolio, e che
in questo senso è (oggi, in virtù della sua carica e della sua politica), il
massimo responsabile della conservazione distruttiva del nostro sistema? Non ci
sentiamo di chiamare viscerale questo antiamericanismo, e neanche forse di
avercela con Bush; è piuttosto una elementare esperienza esistenziale, quasi
metafisica: siamo di fronte ai limiti del nostro modello di sviluppo, anche
prendere atto che non siamo fatti per vivere in una Europa tropicalizzata e
desertificata è un modo di esser messi di fronte alla nostra finitezza.
E' vero che fra qualche
centinaio di anni i nostri posteri si saranno abituati, sapranno vivere come
oggi gli abitanti della savana. Ma nel frattempo? E' una «ristrutturazione» di
cui siamo disposti a sopportare i costi?
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