Il Parlamento è un ingombro
per il governo-azienda nato dal partito-azienda? Pare di sì. Il suo ruolo
sembra essere essenzialmente quello di un organismo che ratifica le decisioni
dell'esecutivo e della sua maggioranza. Se si dà un’occhiata alle statistiche
di questo primo biennio berlusconiano se ne ha l’immediata riprova.
Alla Camera dei deputati i
disegni di legge che hanno convertito altrettanti decreti legge governativi (ben
111 in due anni) hanno rappresentato oltre un terzo, esattamente il 34,1 per
cento, di tutti gli atti votati in aula. Nella legislatura precedente, quella
dei tre governi dell'Ulivo, erano stati, in cinque anni, 170 in tutto ed avevano
costituito un po' meno del 19 per cento. Siamo quindi vicini al raddoppio, col
Parlamento impegnato soprattutto a convertire entro i sessanta giorni prescritti
i decreti legge del governo.
Poi naturalmente ci sono i
disegni di legge presentati e fatti approvare dal governo che si portano via un
altro 50 per cento abbondante. Ciò significa che alla iniziativa parlamentare
rimane ben poco. L'ha denunciato di recente ad un convegno dei Lincei il
vice-presidente del Senato, senatore Domenico Fisichella. In modo allarmato. È
sempre stato così? Per la verità, no. Un maggior spazio, anche nella
legislatura precedente, il Parlamento l'ha avuto. Ora si va sempre più
restringendo. Questo governo sta infatti lavorando moltissimo anche con lo
strumento delle leggi delega, anche laddove c'era un Testo Unico varato da poco
(è il caso della delicatissima materia dei Beni Culturali). E sono deleghe
larghe, larghissime, con pochi paletti. Tanto pochi che, per l'Ambiente come per
gli appena citati Beni Culturali, i ministri e i loro principali collaboratori
ci stanno mettendo dentro di tutto, compresa la riforma del Ministero medesimo.
Nel caso dei Beni Culturali si sta arrivando ad una rottura davvero epocale
della tutela frantumando le leggi Bottai del 1939 (che saggiamente avevano
ripreso e riverniciato ottime leggi giolittiane) ed avviando privatizzazioni
incompetenti, ambigue e pericolose basati sul concetto che i parchi come i musei
anzitutto devono "rendere".
La legge delega, se usata con
misura e coi dovuti principi-cardine ben definiti dall'assemblea parlamentare,
può portare, col concorso delle migliori intelligenze, a leggi di grande
portata. Ma se la si utilizza ad ogni pié sospinto, con paletti quasi
inesistenti, diventa davvero un modo per fare a meno dell'«ingombro»
parlamentare, una volta ricevuta la delega come una sorta di cambiale in bianco.
Ed è ciò che purtroppo sta avvenendo.
La situazione di asfissia
parlamentare è così grave che nell'ottobre 2002 il presidente della Camera,
Pier Ferdinando Casini, ha sentito la necessità di ribadire pubblicamente:
«Non è che col maggioritario il Parlamento diventa un ingombro da saltare». E
ancora: «Sarebbe avventato pensare che la prova elettorale risolva ogni
problema di indirizzo politico per l'intera legislatura e che, da quel momento,
in poi, si tratti solo di realizzare senza intralci il programma della
maggioranza». Quel giorno, alla Sala del Cenacolo di Montecitorio, Casini pose
fra «i valori irrinunciabili» il «ruolo di un'opposizione vitale e critica»
la quale «non può essere vista come un inutile intoppo».
Un chiaro segnale al governo e
al suo leader tanto insofferente del dibattito e del controllo esercitato
dall'aula, che lui giudica una perdita di tempo rispetto al "suo"
programma, alla "sua" agenda di lavoro. Si indebolisce dunque il ruolo
centrale delle Camere. Si indebolisce il ruolo di tutti gli organismi di
controllo critico, anche di quelli consultivi: il Consiglio per i Beni
Culturali, dopo l'insediamento dei tre nuovi componenti in sostituzione di
altrettanti "epurati" (Giuseppe Chiarante rieletto vice-presidente
alla unanimità, Luca Odevaine e chi scrive), non è stato in pratica più
riunito, o quasi. È stato convocato l'ultima volta, pensate, il 12 dicembre
2002 per approvare in quattro e quattr'otto il piano di spesa. Poi, più nulla.
La "riforma" Urbani lo eliminerà o lo assimilerà in tutto ad una
pianta ornamentale.
Uno degli strumenti di denuncia
e di controllo è rappresentato in Parlamento da interpellanze e interrogazioni
(con risposta orale o scritta). Anche su questo piano si scivola sempre più
verso l'afasia, verso il mutismo dei ministri. Le interpellanze a cui si è data
risposta (e sono lo strumento più urgente) rappresentano il 63,5 per cento. E
l'altro 36,5 per cento? Che aspetti o si rassegni. Molto peggio va con le
interrogazioni (fra le quali ve ne sono, va detto, di strampalate e inutili): a
quelle orali è stato risposto soltanto nel 38,6 per cento dei casi; quelle con
risposta scritta sono state soddisfatte ancor meno, per un 36,2 per cento. Tutte
da buttare le altre? Certamente no. Ma, di questo passo, si butta l'autonomia e
la capacità di elaborazione critica del Parlamento.
Poi ci si lamenta del fatto che
il livello politico-culturale dei suoi componenti si abbassi sempre di più. Ma
quale persona riuscita nel proprio mestiere o nel governo locale e regionale
accetterà di andarsi a ficcare in assemblee dove sempre meno si ha modo di
discutere, dove il ruolo degli eletti è ridotto a quello di passivi
ratificatori elettronici? Questo Parlamento è uscito largamente rinnovato nei
suoi quadri dalle elezioni del 2001. Alla Camera 43 deputati su cento risultano
eletti per la prima volta, molti uomini e assai poche donne in verità: in tutta
l'aula di Montecitorio poco più di 11 su cento parlamentari, 4-5 su cento nel
gruppo di An e 7-8 in quello di Forza Italia all'opposto i Ds ne contano 24-25.
Ma anche il ricambio generazionale sembra purtroppo andare in una sola
direzione: quella che vuole deputati e senatori ridotti, essenzialmente, a
"terminali" ubbidienti. |