È meno ovvio che l’Italia
degli anni Settanta e di oggi fosse e sia, nonostante tutte le sue miserie e le
sue tenebre, un Paese totalitario ignaro di diritti. Invece secondo il professor
Toni Negri, leader di Autonomia operaia e condannato per partecipazione a banda
armata, vi sarebbe una voluta e pianificata continuità tra le persecuzioni
inflitte dalla magistratura italiana ai terroristi negli anni di piombo e le
persecuzioni inflitte ora da essa a Berlusconi, al quale Negri ha espresso
pubblicamente solidarietà e che evidentemente egli considera «vittima della
giustizia borghese» come i condannati per la lotta armata, lotta che ha visto
cadere assassinati tanti galantuomini. È strano che un capo di governo non si
senta offeso da tale accostamento e non senta il bisogno di respingerlo.
Le «vittime della giustizia
borghese» attualmente in carcere per crimini di terrorismo vanno tutelate con
fermezza nei loro diritti, come ogni cittadino, e vanno comprese nelle astratte
e febbrili passioni che possono averle portate a commettere quegli atti, nei
sentimenti talora soggettivamente generosi ancorché distorti e oggettivamente
aberranti che li hanno mossi; in quegli smarrimenti, incertezze, confusioni,
reazioni emotive, spocchie intellettuali, slanci utopici, esaltazioni pacchiane
e sdegnati furori che, incrociandosi con le torbidezze di un’epoca e di una
società, possono portare chiunque, e soprattutto un giovane, alle scelte e alle
azioni più disperate e colpevoli, come Raskolnikov in Delitto e Castigo .
È augurabile che questa
comprensione possa tradursi in provvedimenti giudiziari atti a restituire delle
persone alla pienezza della vita civile senza pregiudizio di quest’ultima.
Forse si può chiamare tutto ciò «riconciliazione», a patto di intendersi sul
termine. Lo Stato e gli ex-terroristi non sono come la Francia e la Germania
che, dopo essersi sbranate per secoli, si danno la mano - nello storico incontro
fra de Gaulle e Adenauer - riconoscendo la parità dei torti reciproci (a parte
il nazismo). Questa è, a tutti gli effetti, un’autentica riconciliazione -
sulla quale, peraltro, si basa in buona parte concretamente l’Europa.
La premessa di un’eventuale
amnistia per gli ex-terroristi è invece la tranquilla, definitiva e condivisa
consapevolezza che lo Stato italiano - malgrado le sue carenze e le sue sacche
anche criminose - non era la Germania di Hitler, che dunque il terrorismo non
era una scelta solo sbagliata e politicamente insensata e perdente bensì
oggettivamente criminosa e che erano nel giusto Pertini e Valiani e non il
partito sotterraneo e trasversale, vivo ancor oggi e confluito in gran parte
nella destra, di chi diceva «né con lo Stato né con le Brigate Rosse»; il
partito di chi era pronto a trattare con i carcerieri di Moro senza turbarsi del
fatto che questi ultimi fossero già gli assassini di cinque agenti,
evidentemente considerati carne da cannone; il partito di chi, pur di opporsi a
ogni tentativo di creare un’Italia più democratica e più libera, flirtava,
da reazionario con le frange del terrorismo. Chiarito serenamente tutto questo,
si può e si deve aver comprensione di tanti destini umani e restituirli alla
vita, senza inchiodarli ai loro errori ma senza riconciliarsi con quegli errori.
Non è un caso che sia la
destra a parlare, spesso equivocamente, di riconciliazione. Quest’ultima è
tanto più necessaria quanto più brucianti sono, nella storia di un Paese, le
ferite da rimarginare. Lo è stata, ad esempio, dopo il ’45, quando si
trattava di sanare la lacerazione della guerra civile e di riunificare le due
Italie che si erano contrapposte con le armi. Ma questa riunificazione (o
riconciliazione) non significava e non significa una via di mezzo tra fascismo e
antifascismo o, come mi è capitato di dire, Valiani più Farinacci fratto due.
Essa si basa sul chiaro riconoscimento di quale è stata e continua ad essere la
parte giusta e quale quella sbagliata, il che significa considerarsi eredi dell’antifascismo
e dei suoi valori.
Certo, nel Dna di una nazione,
come di un individuo, c’è tutto il passato; Auschwitz fa parte della storia
tedesca e ogni tedesco deve saperlo, il che non vuol dire che egli si senta
egualmente erede di Himmler e di Goethe, bensì che egli deve costruire la sua
storia di oggi e di domani sul rifiuto di Auschwitz.
Il fascismo non è stato certo
il nazismo o lo stalinismo, ma anche la nostra storia si basa sul consapevole e
sereno rifiuto di esso. Su questa premessa condivisa è possibile e doveroso
riconoscere i suoi aspetti positivi, comprendere e rispettare i motivi che hanno
indotto molte persone d’animo generoso a credere in esso e dunque integrarlo -
ma solo sulla base di questo giudizio - nella nostra memoria storica. L’unità
della patria, che permette e presuppone quella riconciliazione, si fonda su una
scelta di valori, non su un’ammucchiata. Il patriottismo della Francia è
espresso dalla Marsigliese, il canto nato in un momento di estrema divisione e
da una precisa scelta di parte, della Rivoluzione - e che per questo oggi può
esprimere l’unità del Paese. Così è l’Italia della Resistenza, non quella
della marcia su Roma o delle leggi razziali, che può parlare a nome di tutti
gli italiani, anche dei caduti a El Alamein. |