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REPUBBLICA - 27 Gen 2001
Da Mazzini ad Arcore, la parabola di un leader
di NELLO AJELLO

Il segretario del Pri ne firma l'atto di decesso
 
AVEVA, alle spalle, una tradizione illustre. Cioè una carriera di "figlio d'arte politica", cui si accompagnava, in economia, il prestigio maturato al seguito di grandi maestri: i precedenti di Giorgio La Malfa, non potrebbero essere più selezionati e privilegiati. Che cosa può invece scorgere davanti a sé, il segretario del Pri, ora che sta salpando verso le banchine sovraffollate del Polo delle Libertà?
Da giovanotto di buona famiglia democratica - come questo sessantunenne ha continuato ad apparire perfino smentendo l'anagrafe - ad esponente d'un modesto cespuglio del centro-destra il tragitto è amaro. Si può compierlo soltanto dopo aver emesso una diagnosi catastrofica su se stesso e sulla propria vicenda politica.
Partendo cioè dalla convinzione che quell'aggettivo "storico" che s' accoppia da sempre al partito repubblicano non designi una dignità antica, ma si limiti a registrare un decesso. Constatazione amara. Ancora più amaro risulterebbe considerare del tutto svaporate quelle lezioni di vita (anche e soprattutto di vita politica) che Giorgio La Malfa deve aver appreso, a suo tempo, fra le mura di casa. In un'epoca non poi tanto remota, in quel 1987 che lo vide eleggere segretario del Pri, conversando con lui si percorreva un tratto saliente di storia italiana, filtrata attraverso una famiglia.
Ricordi di un'epoca pericolosa. L'esilio dei La Malfa a Berna, ospiti in casa di Filippo Caracciolo, allora in Svizzera con un incarico diplomatico: Ugo, costretto all'espatrio per aver redatto, in gran parte, il primo numero del quotidiano clandestino L'Italia libera, figurava maestro di ginnastica dei ragazzi Caracciolo. Poi, a Roma, la clandestinità. La Resistenza. La lunga pratica di governo del capofamiglia. Sotto l'egida paterna rientrano le prime frequentazioni "illustri" del giovane La Malfa: a Milano lavora con Enrico Cuccia a Mediobanca, incontra Adolfo Tino e Raffaele Mattioli, il patriarca della Commerciale.
Va a laurearsi in economia in Inghilterra, vince poi una borsa di studio negli Stati Uniti, al MIT. In Gran Bretagna annovera fra i suoi professori grandi economisti della tradizione keynesiana, da Nicholas Kaldor alla Joan Robinson, e il marxista Piero Sraffa. In America ascolta le lezioni di Franco Momigliano.
Una formazione di grande respiro per quel docente di politica economica che La Malfa è stato, e potrebbe continuare ad essere, se la politica - che oggi lo porta, dopo una lunga adesione al centro-sinistra, su una frontiera imprevista - non lo assorbisse troppo.
Pensarci nei panni del segretario repubblicano è, di questi tempi, un sacrificio, ma può aiutare a chiarire il mistero di una scelta. Perché adesso con Berlusconi? Occorre procedere per esclusione. L'ipotesi che di repubblicani non ce ne siano più, e che quindi sia scoccata l'ora del "si salvi chi può" è la più drastica, ma consente di adottare verso il protagonista un po' di comprensione: tutti, si può sostenere, hanno il diritto di sopravvivere.
Ma si può dare del gesto anche un'interpretazione diversa. Immaginare cioè che i residui militanti del Pri accettino docilmente di approdare al centro-destra. Ecco un'eventualità problematica. Tre erano, in epoca non preistorica, i punti di forza, benché relativi, del partito repubblicano: la Milano di Giovanni Spadolini, la Sicilia di Aristide Gunnella e, soprattutto, la Romagna di Oddo Biasini.
I primi due restano un ricordo. Quanto al terzo baluardo, quello romagnolo, che aveva indotto Palmiro Togliatti a definire il Pri "un piccolo partito di massa", forse è soltanto lesionato: ma si tratta d'un ambiente orgoglioso della propria identità di sinistra, animato - anche perché situato nella zona degli antichi legati pontifici - da rocciose convinzioni laicistiche. Come proporre a un elettorato del genere un drastico trasloco di ideali, da quelli di Giuseppe Mazzini a quelli di Silvio Berlusconi?
Il Pri fu - vorremmo dire è - anche un partito d'opinione. E' ovvio ricordarlo.
Vi si riconosceva la tradizione del partito d'Azione: l'impegno civile, la sobrietà del pensiero, il rigore amministrativo, l'allergia al populismo, il diniego della demagogia, per non parlare della pregiudiziale antifascista.
E' certo inutile far presenti simili benemerenze ai tanti che sono oggi in transito verso quella Casa delle libertà che neppure si sogna di contemplarle nei suoi programmi.
Non dovrebbe essere però vietato ricordarle a chi risulta iscritto all'anagrafe in questi termini: La Malfa Giorgio fu Ugo.

 
 

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