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REPUBBLICA - 22 Gen 2001
LE ILLUSIONI DI UN COMUNISTA
di ALBERTO ASOR ROSA

CARO Direttore, ieri ricorreva l'80 anniversario della fondazione del Partito Comunista d'Italia. Mi sono iscritto alla Federazione giovanile comunista nel 1953: avevo vent'anni. Ne sono uscito nel 1956, perché non riuscirono a persuadermi che, per far trionfare la causa della rivoluzione mondiale, fosse necessario che i carri armati sovietici schiacciassero la rivolta degli operai ungheresi a Budapest.
 
MA ci sono rientrato all'inizio degli anni '70, quando sembrò che il Pci avesse fatto definitivamente i conti con la perdita di "spinta propulsiva" da parte dell'Unione Sovietica. Ho avuto sempre un rapporto critico con il comunismo e con il Partito comunista: molti, nel corso degli anni, soprattutto all'interno di quel Partito, hanno messo in dubbio il mio "essere comunista". Le "illusioni" del militante comunista, di cui parla François Furet nel suo libro, "Il passato di un'illusione", bello ma radicalmente sbagliato, io credo di essermele lasciate dietro le spalle molto presto. Potrei facilmente elencare, con miglior successo di pubblico, i punti sui quali mi sono distinto sia dall'esperienza storica del comunismo sia da quella che Furet, appunto, chiama "l'idea comunista". In un momento come questo ritengo invece più onesto intellettualmente parlare di quelli che ho condiviso con altri, che si sono detti con me e accanto a me comunisti, - punti che, ammesso che siano scomparsi nella storia e con la storia, durano in me, e di cui quindi mi sento ancora in qualche modo debitore ai meno che trentenni fondatori del PCd'I, - quelli che erano stati, noi pensavamo, i nostri solidali coetanei di allora, sotto la volta simbolicamente sconnessa e quasi crollante del Teatro San Marco a Livorno.
 
A vent'anni, giovane intellettuale piccolo-borghese, pensavo di volere una cultura diversa da quella dei miei padri. In questa sintesi di natura, per forza di cose, stringatamente intellettuale, condenso il senso di un intero rapporto mio, nostro, con il nostro paese, con l'Italia. Non ci piaceva la cultura italiana, non ci piaceva l'Italia. Avevamo bisogno di una cultura che fosse in grado di "scortecciare" da tutte le parti la società borghese, che le cavasse a viva forza dalle viscere (viva forza intellettualmente, beninteso) la sua verità. Fra i venti e i trent'anni ho letto furiosamente, alternando i testi nel corso della stessa giornata, senza mai sentirli contraddittori (anzi), Marx, Nietzsche e Freud: se fossi stato in Unione Sovietica sarei finito in un gulag; in Italia mi toccava soltanto di ascoltare pazientemente le rampogne di Mario Alicata. Alla tradizione culturale italiana, che arrivava fino a Croce e Gentile, e da questi, secondo alcuni (ma noi non eravamo d'accordo) fino a Gramsci, contrapponevamo questa esplosiva miscela franco- russo-tedesca, che dall'Illuminismo portava alla Rivoluzione francese alla Comune di Parigi alla Rivoluzione bolscevica alla futura Rivoluzione nel grande Occidente capitalistico. Queste, senza dubbio, erano "idee": ma erano idee che, alla prova dei fatti, avevano dimostrato di saper "cambiare il mondo". E a noi, sopra ogni altra cosa, interessava "cambiare il mondo".
 
Volevamo cambiare il mondo, perché il mondo era ingiusto.
 
Devo esser preciso su questo punto: il valore di riferimento fondamentale era la giustizia, non l'eguaglianza; l'eguaglianza, se mai, sarebbe venuta dopo, come una conseguenza della giustizia. Per società ingiusta intendo un'organizzazione sociale e produttiva dominata dallo sfruttamento capitalistico: il lavoro umano ridotto a merce e scambiato per un salario (Smith prima di Marx); l'intera struttura sociale e statuale, l'intero sistema politico, subalterni e conformati a questo principio. Era per noi esaltante che delle verità contenute in questa visione ci fosse una spiegazione scientifica - quella marxiana - e una base materiale per il suo rovesciamento (ossia, per "cambiare il mondo"), - la classe operaia di massa, che avrebbe fatto, e per cui si sarebbe fatta, la rivoluzione socialista. C'era una rigorosa consequenzialità in questo processo. Ciò deriva da questo: avevano l'incredibile presunzione di pensare che la storia avesse un "senso". Se questa è una colpa, anzi è la radice dell'errore, da cui tutto poi sarebbe tralignato, noi eravamo colpevoli: colpevoli di pensare che, mettendo coerentemente e pazientemente un'azione dietro l'altra, un'idea dietro l'altra, a un certo punto si sarebbero create le condizioni perché la società smettesse d'essere ingiusta, o fosse meno ingiusta.
 
Per raggiungere questo risultato finale - anche molto, molto lontano, laggiù nel tempo, forse solo a vantaggio dei nostri figli o dei figli dei nostri figli - c'era bisogno di un'organizzazione molto disciplinata ed efficiente, insomma, di un partito "diverso". Dio sa quanti insopportabili burocratismi e quante violenze intellettuali questa diversità ha comportato. Ma l'"anomalia comunista" serviva per noi a correggere anche sul piano organizzativo, oltre che ideale, le distorsioni tradizionali della macchina e del ceto politico italiano: perciò ci sembrava utile, complessivamente sopportabile. Per giunta, aveva l'inestimabile vantaggio dell'internazionalismo: tutto quel che facevamo, c'era un giovane giallo con gli occhi a mandorla e un nero con i capelli crespi che in quel momento lo stavano facendo, con lo stesso spirito e sentimento nostro.
 
Tutto questo è ormai scomparso, o è diventato talmente minoritario da apparire, come accade talvolta nella storia, parodistico rispetto all'originale grandioso, perché, come scrive Furet, l'"illusione" è scomparsa "con la scomparsa di quello che dava ad essa sostanza" (l'esistenza stessa dell'Urss). Ma, poiché la vittoria non è mai un segno della giustezza dell'"idea" che prevale (altrimenti la storia avrebbe un senso, no?, e ci è stato testè spiegato quanto sia pericoloso pensare che ne abbia uno), forse agli "illusi" di un tempo dovrebbe esser consentito, in una società liberale e tollerante come la nostra, un diritto di controprova. Il partito disciplinato ed efficiente non c'è più: in Italia, almeno in Italia, è stato coscientemente fatto a pezzi, - ripeto e sottolineo: coscientemente - da chi pensava (giustamente) che si sarebbe frapposto come un ostacolo a concepire la politica dei termini nuovi della gestione personale del potere. La classe operaia di massa è stata frantumata, invece, dallo sviluppo tecnologico e dalla new economy. La cultura italiana (non quella dei suoi intellettuali, che del resto conta sempre meno, ma quella diffusa, profonda, capillare, di massa) è tornata quella di sempre, un po' Controriforma, un po' opportunismo parolaio e politicantistico. E il mondo è più ingiusto di prima, se non altro perché nessuno si propone più di cambiarlo, e questo basta a renderlo più ingiusto.
 
Nostalgia dell'"idea comunista"? Nessuna. Solo questa considerazione, basata su di una logica geometrico- matematica: la scomparsa dell'"idea comunista" o la sua riduzione a dimensioni parodistiche, - il "vuoto" che ciò ha aperto, - ha lasciato il sistema democratico- capitalistico padrone incontrastato del mondo. In una situazione del genere i classici insegnano che può crearsi una tentazione totalitaria. Scrive ancora Furet: "Ormai siamo condannati a vivere nel mondo in cui viviamo".
 
Benissimo (se non se ne può fare a meno). Ma non vorrei che per scansare i rischi dell'"illusione", che la storia ci fa conoscere in maniera lampante, per non voler più "cambiare il mondo", perché questo potrebbe portare ad una catastrofe, cadessimo senza più difesa alcuna in quelli della più pura ed ingenua accettazione del mondo. So bene che "democrazia totalitaria" è un'espressione teoricamente e logicamente contraddittoria. Ma le forme concrete del dominio e le sue figure più rappresentative anche sul piano simbolico (basti pensare all'Italia ma anche in Europa non ne mancano gli esempi), vanno in questa direzione. Si direbbe che l'"idea comunista", - non il suo obsoleto corredo politico-istituzionale, sociologico, ecc. ecc., ma il suo senso più profondo, il suo messaggio epocale, ossia, a voler essere sinceri, la critica radicale della "democrazia borghese", - torni ad esser vera nel momento della sua più totale sconfitta.

 
 

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