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  REPUBBLICA - 30 Mar 2001
I MANGIAFUOCO IN DOPPIOPETTO -

di GIORGIO BOCCA

C'È un fatto nuovo in questa campagna elettorale: per la prima volta dal '48 la gente ha paura che si sia tornati a un punto di non ritorno, a una scelta che mette a fortissimo rischio l'alternativa democratica fra governo e opposizione. Sono bastate certe minacce da "mangiafuoco", come quelle di Previti, di Gasparri, di Pera e di altri ("faremo piazza pulita", "questa volta non ci saranno prigionieri", "istituiremo una Corte per giudicare i magistrati"), a diffondere il sospetto che in queste minacce ci sia qualcosa di vero.
 
Anzi che ritorni qualcosa che abbiamo già conosciuto. Qualcosa che in questo mezzo secolo di democrazia sembrava definitivamente scomparso: da quell'aprile del ‘45 quando le formazioni partigiane, anche le più radicali, rinunciarono alla "malattia infantile dell'estremismo" e accettarono la regola del one man one vote.
 
Ci ha fortemente colpito che a manifestare pubblicamente questo stato di malessere, di paura, di insicurezza siano stati due personaggi come Montanelli e Biagi che sono per l'opinione pubblica italiana i simboli di una moderazione estranea ai partiti, gli ultimi a doversi preoccupare di ricatti e ritorsioni politiche.
 
Che cosa è accaduto in questa campagna elettorale e negli ultimi mesi per destare fra la gente comune, forse anche fra non pochi sostenitori della Casa delle Libertà questa ansia, questa insicurezza? Forse una di quelle combinazioni magari affidate al caso, ma decisive che possono cambiare il corso della storia e far di incontri banali, strumentali, delle miscele esplosive.
 
Abbiamo sin qui parlato del Polo delle Libertà come di una alleanza anomala fra borghesia moderata, ex fascisti e federalismo leghista. E ascoltato le assicurazioni che questa compagnia dei diversi aveva definitivamente trovato, un ubi consistam democratico, che cioè aveva ripudiato, dimenticato i caratteri autoritari di tutti e tre i componenti: quello imprenditoriale di Forza Italia e del suo leader, quello fascista di Alleanza nazionale, quello separatista della Lega. Caratteri autoritari che pareva dovessero elidersi l'uno con l'altro ma che invece pare si siano sommati.
 
La mentalità autoritaria di Berlusconi che lui rifiuta con disdegno, si manifesta in tutte le riunioni con i suoi colleghi imprenditori: gli applausi più sinceri di assemblee come quella di Parma scattano quando il nostro ironizza sui politici che parlano parlano e non combinano niente, sulla megamacchina burocratica dello Stato che legifera legifera ma si impantana nelle sue lungaggini e contraddizioni, insomma il decisionismo semplicista che non riesce a capire che proprio alcuni difetti della burocrazia democratica sono la sua salvaguardia.
 
La presunzione autoritaria di rifondare dalle fondamenta uno Stato che ha impiegato un secolo e mezzo per mettersi faticosamente insieme, sommando interessi politici di buon governo a difese corporative, non è di per sé premessa dittatoriale, ma una tendenza, un via libera a quanto di autoritario rimane nei componenti dell'alleanza anomala.
 
La bella sicurezza imprenditoriale e anche la sua retorica produttivistica e progettuale danno una spinta alla mai scomparsa intolleranza missina degli Storace, dei Gasparri e anche del loro segretario un po' "fumo di Londra" e degli altri che promettono sfracelli fiscali, giudiziari.
 
La paura, l'ansia, il malessere di molti italiani viene anche dal fatto che non si sentono con le spalle al sicuro perché il rapporto delle forze non è più quello sostanzialmente equilibrato che consentì alla Repubblica di superare la guerra fredda: da una parte il padronato e la burocrazia governativa con i suoi partiti, le sue istituzioni, dall'altro la classe operaia, l'Italia dei sindacati e della borghesia riformista e i loro partiti.
 
Oggi di fronte alla rivincita e allo strapotere del denaro, di chi sta nella stanza dei bottoni dell'economia e della tecnica, c'è una sinistra svuotata di armi ideologiche, in parte rassegnata alle necessità dello sviluppo basato sul profitto, con partiti che nel migliore dei casi si accingono a rifondarsi, a darsi una nuova ragion d'essere.
 
Il fatto che a gridare la loro opposizione al nuovo corso autoritario, alla deriva autoritaria e conservatrice siano stati personaggi della satira e del giornalismo nel silenzio o nello scarso impegno dei luoghi deputati della democrazia, il Parlamento, le grandi istituzioni, è stato colto dalla pubblica opinione come un segno di smarrimento, di scollamento dello schieramento democratico.
 
E da una parte c'è stata la sorpresa rincuorante di una reazione civile, spontanea, dall'altra il sentimento della sua estemporaneità e magari del suo velleitarismo.
 
C'è da augurarsi che i "mangiafuoco" della Casa delle Libertà si calmino e si rendano conto che una svolta elettorale è una svolta di governo non di regime, che possono cambiare i ministri ma non le radici della democrazia, crediamo più profonde di quanto pensino coloro che da mesi cercano di diffamarla e di corroderla.

 
 

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